
I primi problemi vengono alla luce dalla sconfitta elettorale di aprile scorso che ha nettamente indebolito il segretario Veltroni appannandone la sua immagine pubblica di leader vincente e, di conseguenza, il suo ruolo e la sua capacità interna di tenere saldamente assieme le diverse anime di un partito ancora poco coeso. La sua linea eccessivamente morbida e accomodante nei confronti di Berlusconi avversario alle elezioni e, quindi, Presidente del Consiglio, è stata criticata sempre più aspramente, prestando facile fianco alle critiche di Di Pietro e della Sinistra rimasta fuori dal Parlamento e ridando respiro ai suoi tanti oppositori interni, che alle primarie dell’ottobre 2007 si erano dovuti piegare all’onda della sua popolarità. Tanto più che questa strategia del dialogo si è rivelata infruttuosa sia sul piano del consenso elettorale sia sul piano del miglioramento effettivo delle relazioni maggioranza-opposizione, come dimostra l’incapacità di influire realmente sulle scelte principali del Governo e di aprire un serio tavolo di concertazione sulle principali questioni di interesse comune - Alitalia, la crisi economica, le riforme costituzionali, la giustizia – e come certifica l’atteggiamento sempre più sprezzante di Berlusconi, che, non contento dei sondaggi decisamente favorevoli, non perde occasione per sbattere platealmente in faccia le porte a Veltroni e al PD.
Su quasi tutti i provvedimenti governativi che hanno suscitato critiche o perplessità - come il Lodo Alfano e i progetti di riforma della giustizia, i tagli e la riforma della scuola, gli interventi pesanti in materia di sicurezza e libertà personali, la gestione del passaggio di mano di Alitalia - l’opposizione offerta dal PD è stata blanda e poco incisiva, sempre surclassata in visibilità, incisività e chiarezza dalle vivaci iniziative dell’Italia dei Valori. Anzi, proprio i rapporti sempre più controversi con il partito di Di Pietro sono diventati presto un altro nodo problematico sull’agenda di Veltroni, combattuto tra la salvaguardia di un alleanza sempre più litigiosa e problematica e le sirene berlusconiane che puntano a escludere dal confronto parlamentare un personaggio scomodo attraverso l'accusa di “massimalismo” o “giustizialismo”. Così, mentre il PDL riprende a esercitare una capacità attrattiva, il PD si divide persino nella gestione delle alleanze che gli sono comunque indispensabili per sperare di vincere le prossime tornate elettorali amministrative. Mantenere in piedi il difficile rapporto con Di Pietro, che grazie ai suoi toni più marcati, drena consensi proprio al PD? Riaprire al variegato mondo di una Sinistra in cerca di autore? Oppure spostarsi ulteriormente verso il centro alleandosi con l’UDC di Casini?
A ben guardare però i problemi del Partito Democratico, compreso il nodo delle alleanze, affondano le sue radici in una serie di questioni mai risolte e legate alla sua stessa origine. In primo luogo, l’unione di DS e Margherita non sembra originata da una reale condivisione di ideali e cultura politica, ma, semmai dalla convinzione strategica di voler creare una forza con “aspirazione maggioritaria” capace di conquistare e gestire il potere marginalizzando gli alleati scomodi dei partitini di sinistra e, in parte, di centro. Questa scelta è stata gravida di conseguenze quasi sempre negative per il PD. Molte scelte centrali, come quelle legate alle questioni etiche, alla laicità, ai diritti civili che di solito sono fondamentali per dare un definito profilo identitario a una formazione politica, sono diventati dei veri e propri tabù sui quali non si è più in grado di pronunciarsi e regna una pace armata tra l’anima social-riformista e l’anima cattolica (TeoDem) e popolare. Allo stesso modo, è diventato assai difficile dirimere la questione della collocazione europea tra le fila del PSE. Al punto che al momento le opzioni un po’ surreali sono quelle di creare un nuovo gruppetto europeo alleato o federato al PSE o, addirittura di lasciare liberi gli eletti del PD di andare a collocarsi nel gruppo che più ritengono opportuno nel Parlamento europeo, andando probabilmente a sparpagliarsi tra PSE, Popolari Europei e ALDE. Ma su quasi tutte le questioni grandi e piccole si registra nel PD o una varietà di posizioni e sfumature da torre di Babele o per l’inverso l’appigliarsi a formule tanto vaghe e fumose da risultare concretamente incomprensibili, come, ad esempio sulla riforma della giustizia, sulla quale le dichiarazioni del PD si limitano a un richiamo di rispetto del dettato costituzionale senza lasciare intendere quali siano poi le proposte e le soluzioni concretamente sostenute.
L’eredità della fusione lascia anche a tutti i livelli, dalla periferia al centro, una dirigenza pletorica presso la quale regna ancora, a oltre un anno dalla nascita, la logica della spartizione paritaria delle posizioni tra ex Ds ed ex Margherita, per non parlare delle ulteriori divisioni correntizie tra Dalemiani, Veltroniani, Rutelliani, Prodiani, e via dicendo, capaci di offrire uno sconfortante spettacolo di divisioni le cui ragioni di contenuto politico, ove esistono, appaiono poco leggibili agli elettori e persino a molti militanti, dando quindi l’impressione di un permanente contrasto interno per le posizioni e per il potere che disorienta persino gli osservatori più attenti. In questo quadro fosco i decantati strumenti di democrazia interna, quali le primarie, sono diventati oggetto di contesa, applicati di malavoglia o a macchia di leopardo, oppure trasformati in meri strumenti di investitura delle scelte già calate dall’alto. Finanche la continua riproposizione da parte della stampa dell’eterno confronto, vero o presunto, tra Veltroni e D’Alema (già visto nei Ds degli anni ’90) diventa più che altro il simbolo e la rappresentazione di un partito che non riesce a proporre soluzioni alternative ai tanti problemi italiani e che si ripiega su se stesso, si parla addosso ed è incapace di rinnovarsi e proporre all’attenzione dei media una nuova leadership.
Le complicazioni più grosse alla navigazione del PD, però, stanno venendo da quelle che fino a qualche anno fa erano il fiore all’occhiello del Centro Sinistra: le amministrazioni locali. I primi problemi sono emersi già durante la campagna elettorale con la questione della spazzatura napoletana per settimane sulle prime pagine dei giornali e il presidente della Regione Campania, Bassolino, sul banco degli imputati. Poi, il primo durissimo colpo è giunto sin da subito con le elezioni di primavera e la perdita di Roma, già governata proprio da Veltroni, la sconfitta del rientrante Rutelli e il trionfo di Alemanno. Una batosta psicologica e di immagine che ha lasciato lunghi strascichi e recriminazioni, perché al centro delle critiche è stata messa proprio la gestione dello stesso sindaco Veltroni, con l’enorme debito della città sbandierato come un trofeo dal vincitore, la questione aperta del cosiddetto sacco edilizio delle periferie, e la psicosi sicurezza utilizzata come testa d’ariete. Insomma quel modello Roma che era quasi il simbolo dell’ascesa veltroniana si è improvvisamente sgonfiato come si trattasse solo di una delle colossali scenografie di Cienecittà, tramutandosi in un vero e proprio boomerang.
Quindi sono arrivate anche le inchieste giudiziarie a travolgere prima la Regione Abruzzo governata da Del Turco – subito dimessosi - e poi a colpire pesantemente diverse amministrazioni locali simbolo, da Napoli, alla Campania di Bassolino, a Perugia, a Pescara, alla Firenze di Dominici e delle ordinanze anti accattonaggio. Uno tsunami giudiziario che rischia di scompaginare definitivamente il neonato Partito Democratico privandolo delle leadership locali e di ogni residua credibilità e superiorità morale. Tanto che lo stesso Berlusconi, col fiuto politico che gli è proprio, si è fiondato su questa nuova emergenza dichiarando che nel PD è aperta una “questione morale”. La verità è che, al di là della effettiva consistenza e del corso che faranno queste vicende giudiziarie, nel momento in cui a guidare l’azione degli amministratori e dei leader politici non ci sono più né forti motivazioni ideali o etiche, né lo spirito di servizio verso i cittadini, ma semplicemente la ricerca del potere per se stesso e per la sua gestione, che sembra essere l’unico collante del PD, è inevitabile che anche i sindaci perdano il contatto con la dimensione reale dell’amministrazione, puntando alla gestione del consenso elettorale, e personale, attraverso un esercizio feudale del potere, con la concessione di regalie e la costituzione di reti e intrecci di potere politico-economici che facilmente assumono contorni opachi, politicamente e moralmente condannabili o equivoci. Comunque vadano a finire queste inchieste si può esser certi che anche la positiva “stagione dei sindaci” volge a rapida conclusione.
A questo punto il Partito Democratico non più attendere nel concludere la fase costituente e nel definire un rapido cambio di rotta che chiuda questa empasse negativa. La soluzione probabilmente più radicale, traumatica e difficile, ma forse l’unica in grado di dare una vera svolta, sarebbe quella di un congresso anticipato a prima delle elezioni europee di giugno, con le dimissioni di Veltroni, che si è dimostrato nei fatti incapace di traghettare il Partito in questa fase così difficile.
Anche questo potrebbe non bastare perché è dubbio che un leader nuovo, privo anche del carisma e dell’investitura dal basso di cui godeva l’ex sindaco di Roma alle primarie di ottobre 2007, possa riuscire laddove un leader navigato ha fallito. Ma il primo vero test elettorale quello della regione Abruzzo tornata alle urne dopo le dimissioni di Del Turco, è un chiaro campanello di allarme.
Se Veltroni terrà testa alle critiche e alle avversità ad attenderlo c’è l’importante prova elettorale delle europee, e certamente, in vista di quell’appuntamento, dovrà mettere in campo una nuova strategia e un rilancio dell’azione politica del Partito. Quella sarà inevitabilmente la sua ultima prova di appello. Se riuscirà a riportare il PD sopra il 30% potrebbe riuscire a placare le critiche e, quindi, a riprender un percorso che al momento sembra essersi interrotto, viceversa, una nuova sconfitta potrebbe mettere la parola fine alla sua esperienza come segretario e, non è da escludersi, anche a quella del Partito. Se i risultati fossero particolarmente negativi, infatti, la difficile convivenza delle sue diverse anime potrebbe facilmente trascendere in una guerra aperta di tutti contro tutti di cui l’unico vincitore certo sarebbe ancora Berlusconi.
Andrea Maccarrone
(Articolo pubblicato su Progress on line)